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Uno studente che muore a 18 anni durante uno stage di formazione scuola lavoro non è solo una giovane vita persa, è molto di più.

Lorenzo, non è un morto sul lavoro, uno in più che si va ad aggiungere al triste conteggio stilato dall’Osservatorio indipendente di Bologna che nel 2021 conta 1.404 lavoratori per infortuni sul lavoro, di questi 695 sui luoghi di lavoro (+18% rispetto all’anno 2020).
L’elenco dei loro nomi è la nostra Spoon River, vite invisibili, presto dimenticate, vittime di un “crimine di pace”. Un crimine che, sempre secondo l’Osservatorio ha avuto un aumento del 9% rispetto al 2008 (primo anno di rilevazione).

Lorenzo era uno studente al suo ultimo giorno di stage “alternanza scuola lavoro” una formula introdotta dalla “Buona Scuola” ma che spesso le aziende utilizzano in modo strumentale. Con questo strumento le aziende (certo non tutte) cercano manodopera giovane, a basso costo, senza diritti sindacali.

I Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO) sono definiti come “gli strumenti che promuovono l’orientamento, favorendo lo sviluppo di competenze personali, sociali, di cittadinanza e imprenditoriali. Tramite questi percorsi formativi, introdotti dalla L.145/2018, gli studenti acquisiscono quelle soft skills, o competenze relazionali, necessarie per imparare a progettare il proprio futuro”.

Legge che, all’art.1 c. 784. ridenomina i percorsi in alternanza scuola-lavoro di cui al decreto legislativo 15 aprile 2005, n. 77, in “percorsi per le competenze trasversali e per l’orientamento” (PCTO)…, sono attuati per una durata complessiva: a) non inferiore a 210 ore nel triennio terminale del percorso di studi degli istituti professionali; b) non inferiore a 150 ore nel secondo biennio e nell’ultimo anno del percorso di studi degli istituti tecnici; c) non inferiore a 90 ore nel secondo biennio e nel quinto anno dei licei”.
Se fosse vero che il PCTO prepara alla scelta del lavoro dovremmo avere un miglioramento nei dati dell’occupazione giovanile.

I dati Istat sull’occupazione a novembre 2021 rafforzano invece la tesi per cui il rimbalzo tecnico del Pil (+6,2%) nel 2020 è stato proporzionale alla crescita del precariato del lavoro dipendente e alla precarizzazione delle altre forme del lavoro. Per avere lavoro stabile occorrono investimenti, ma soprattutto occorre che le aziende investano in formazione. Alla scuola spetta il compito di formare la persona prima e il cittadino poi, non certo quello di formare “un lavoratore”.

Oggi con i fondi del Pnrr (quasi 20 mld di euro di investimenti) si apre uno scenario interessante soprattutto per quanto riguarda le scuole con maggior propensione verso il mondo del lavoro. Ma il maggior aiuto alle future generazioni è legato all’impatto che le sei missioni del Pnrr riusciranno ad avere su ambiente e crescita economica. È quindi compito della politica e del governo perché parte di queste risorse vengano, in parte, investite nel modello di istruzione tecnica e professionale orientandolo verso l’innovazione digitale, attraverso una riforma del sistema degli istituti tecnici superiori, e nell’orientamento attivo nelle scuole secondarie, per incoraggiare da un lato il passaggio all’università, soprattutto nelle materie scientifiche (per laureati siamo il paese fanalino di coda dell’Europa: Eurostat  ci da nel 2020 al 29% di laureati – età compresa tra 25 e 34 anni – di molto lontano dalla media europea e dall’obiettivo del 45% entro il 2030 fissato da Bruxelles) e dall’altro al difficile legame tra scuola e mercato del lavoro, con la non corrispondenza tra le competenze richieste dalle imprese e quelle imparate a scuola.

E allora, davanti alla morte di Lorenzo, torniamo a chiederci: ma la scuola ha il compito di educare o deve servire come un “libretto di istruzioni” per conoscere come funziona un prodotto?
E qui ritorniamo alla domanda: ma è a questo che deve servire la scuola? Io credo che nessuna scuola, neppure quella tecnica o professionale deve servire per orientare lo studente verso una “professionalità”. La scuola non deve servire ad inserire nel mercato del lavoro.

Potremmo dire, provocatoriamente che la scuola non deve “servire” a nulla. Perché la scuola “non serve” (non è al servizio soprattutto del mercato) ma “educa”, deve avere una funzione formativa. Ma per fare questo occorre che i docenti ritrovino l’autorità (attenzione! non l’autoritarismo) del loro ruolo restituendo loro competenze e rivalutando il sapere. Questa scuola sta preparando non i cittadini di domani, e prima ancora persone umane, ma la sua forza lavoro. Lo studente è una merce che viene piazzata sul mercato del lavoro, a cui viene mostrato le sue qualità pratiche. In questo percorso di “ridurre a cosa” (Marx parla di “ reificazione”) anche uno studente, che tutto dovrebbe essere tranne che una “merce”, entra a pieno titolo nel processo produttivo. La scuola quindi serve a preparare “forza lavoro” e una buona spinta gliela da l’Alternanza Scuola Lavoro, che, nella maggior parte dei casi, sottrae tempo allo studio e alla partecipazione alla vita della scuola, impoverendo l’offerta formativa e costruendo una prospettiva di lavoro precario e bassamente qualificato dove chi ci guadagna come sempre è la logica del profitto.

Un dato «Solo nell’anno scolastico 2015-2016 avrebbe consentito alle aziende un risparmio di circa 1 miliardo e 190 milioni di euro. Vale a dire, legittima l’esistenza di lavoro non pagato e anche la sostituzione di forza lavoro retribuita con forza lavoro non pagata».

La “Buona Scuola” in realtà si è rivelata un bonus gratuito per le aziende ma agli studenti cosa lascia?
Fino ad oggi per molti solo frustrazione “pensa che strepitosa opportunità incartare libri alla Feltrinelli o friggere patatine a Mc Donald!” quando non sfruttamento…da oggi anche un “caduto sul lavoro”
Non dico che sia ovunque così ma…

Gli anni di neoliberismo, che ha l’ambito anche la sinistra, hanno fatto sì che merito e mercato coincidessero. Abbiamo trasformato la scuola in azienda (anche nel linguaggio: da preside a dirigente) che al pari di quello che accadeva nel resto della società, anche la scuola doveva partecipare alle nuove regole del mercato come regno della libertà.

Oggi di fronte alle sfide epocali che abbiamo e ai risultati negativi che scontiamo regressione alfabetica di ampie fasce della popolazione (gli analfabeti funzionali), il persistere di elevatissimi tassi di dispersione e abbandono, la difficoltà non risolta di tutte le transizioni che colpiscono i più deboli, la priorità assoluta di costruire inclusione, integrazione e nuova cittadinanza, noi dobbiamo rimettere al centro l’educazione, e questo solo chi ha una visione politica della società può farlo, altrimenti come fin qui è successo tutto verrà delegato al “mercato” e ai suoi “tecnici”.

Il sapere prima ancora che il lavoro è il presupposto per la costruzione di una cittadinanza democratica, per realizzare l’obiettivo di una società aperta e inclusiva capace di accrescere le capacità di ciascuno.
Il sapere non è certo  una putrella (una trave d’acciaio) di diverse tonnellate che si stacca dal macchinario a cui stai lavorando e ti schiaccia.

E allora vediamo cosa è l’educazione nelle parole di Umberto Galimberti:
“Educare significa seguire un ragazzo nel suo passaggio dallo stato pulsionale allo stato emozionale, in modo che abbia una risonante emotiva nei suoi comportamenti, e riesca a capire la differenza tra corteggiare una ragazza e stuprarla, tra insultare un professore e pigliarlo a calci. Educare vuol dire poi portare al sentimento, perché i sentimenti sono fenomeni culturali, non naturali, quindi si imparano. Il problema perciò è questo: diventare uomini. A prescindere dal tipo di scuola – liceo, istituto professionale, tecnico etc. – lo scopo della scuola fino a 18 anni è formare l’uomo. Le competenze sono secondarie e conseguenti. Quanti manager non sono uomini e fanno fare una vita d’inferno ai loro subordinati?”

Potremmo tradurre il pensiero di Galimberti in uno slogan:
La scuola insegni il mestiere di vivere, non un mestiere per vivere